Percossa

Si tirò giù dal letto con gli occhi ancora gonfi di sonno e, malferma sulle sue stesse gambe, si diresse verso il bagno. Si osservò attentamente allo specchio e vide quel segno violaceo che troneggiava superbo sulla pallida pelle del viso.
Si sciacquò il volto con l’acqua calda senza provare nulla, le sue sensazioni erano anestetizzate, si sentiva soltanto vuota e spenta. Si passò una generosa dose di fondotinta sul volto ma non bastò a nascondere il livido; si cosparse di cipria rossastra ma, anche se attenuata, la macchia colorata rimaneva sempre lì, a deturpare il suo viso.
Come era giunta a quel punto?
Come aveva fatto lei, così bella, così intelligente, a finire in quel modo?
Ripensò agli anni delle elementari, a quando la madre, vezzeggiandola come una principessa, l’accompagnava a scuola di danza ogni pomeriggio.
“Devi fare tutto quello che ti dice la maestra, capito Elena?” le ripeteva prima di lasciarla negli spogliatoi a cambiarsi.
Lì, proprio alla scuola di danza, aveva iniziato a capire davvero l’importanza della disciplina, della sottomissione. La maestra, una donna secca e severa, sempre curata ed altezzosa, imponeva alle bambine schemi rigidi basati sull’obbedienza alle regole.
Dovevano muoversi con lei, dovevano essere aggraziate, mantenersi sotto un determinato peso, dovevano avere cura dei propri corpi come se fossero dei templi.
Le bambine entravano in sala in fila indiana, silenziose ed intimorite, intrappolate nei loro tutù rosa.
Dove l’aveva portata quel continuo obbedire alle regole?
Quella costante sottomissione a chi era più forte di lei? Dove l’aveva condotta? Accarezzò il livido bluastro e pensò con ripugnanza a Fabio.
“Non succederà più” aveva promesso la prima volta. Glielo aveva giurato, aveva pianto, si era disperato aveva detto di averla colpita in un momento in cui non era in sé, non era davvero lui. “Sono meglio di così.” aveva ripetuto tra le lacrime.
Era stato soltanto un raptus, un impeto di rabbia dettato dalla paura di perderla, perché no, lui non poteva perderla. L’ amava troppo.
Lei, ancora spaventata per il colpo ricevuto, si era poi intenerita per la sua reazione così disperata. In fondo è sempre stato un bravo ragazzo, forse davvero era stato solo un raptus. Solo un momento di rabbia.
E così lo aveva perdonato.
I giorni seguenti era stato così dolce, così premuroso nei suoi confronti. Avevano parlato tanto, erano andati al cinema e per tutta la durata del film lui non aveva fatto altro che accarezzarle i capelli sussurrandole che l’amava, erano andati a ristorante dove le aveva baciato la mano davanti al cameriere imbarazzato.
Era davvero pentito e lei era contenta di non aver preso troppo sul serio quel piccolo incidente.
Sarebbe potuto capitare a chiunque. Era stato solo un impeto d’ira, lui l’amava veramente.
Poi, due mesi dopo, all’uscita dall’università, Marco l’aveva voluta accompagnare alla fermata del’autobus per continuare a discutere di quel progetto di gruppo.
Marco era un ragazzo un gamba, si conoscevano dal primo anno di università ed erano sempre andati molto d’accordo. Avevano fatto molte tesi di gruppo insieme perché riusciva a tirar fuori idee originali ed era una persona affidabile, ligio sulle scadenze e sulle consegne.
“Ti volevo fare una sorpresa” le aveva urlato Fabio che la stava aspettando alla fermata.
Il volto era livido di rabbia: era uscito da lavoro prima per lei, solo per riaccompagnarla a casa e trascorrere qualche momento insieme quando l’aveva vista camminare al fianco di Marco e discutere con fervore.
Continuava a tranquillizzarlo, a ripetetegli che Marco era solo un compagno di corso, neppure un amico, e parlavano solo di tesi e progetti universitari, ma Fabio non voleva sentire ragioni. Durante il tragitto in macchina continuavano ad urlare e sotto casa sua la tensione era esplosa.
Lui l’accusava di essere infedele, lei negava, lui l’accusava ancora di più, finché non successe di nuovo.
Aveva alzato la mano e, con rabbia, l’aveva colpita con un potente schiaffo. Il suono della pelle contro la pelle aveva risuonato nell’abitacolo dell’automobile prima che un gelido silenzio fermasse il tempo.
Era successo di nuovo.
Come aveva potuto permettere che riaccadesse?
Aveva capito che dopo quella volta sarebbe successo ancora innumerevoli volte, che lui era così. Sotto la maschera da bravo ragazzo, c’era una rabbia incontrollabile, un dolore inespresso che sfogava su di lei.
Come era potuto succedere? Si ripeteva guardandosi allo specchio.
Accarezzò un’ultima volta il livido blu.
Una lacrima rassegnata le scivolò sulla pelle pallida quando, dall’altra stanza, Fabio la chiamò “Elena, torna in camera.”
“Arrivo.” rispose lei, chiudendosi la porta del bagno alle spalle.


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