Viva la vida! di Pino Cacucci, edito da Feltrinelli e pubblicato nel 2010, è un breve monologo interiore che ripercorre l’esemplare e sofferente esistenza di Frida Kahlo, la celebre pittrice messicana nata a Coyoacán (1907 – 1954).
L’autore immagina che Frida decida di raccontare i momenti più salienti della vita del suo passato; la prima immagine che compare è quella della pioggia, metafora di lacrime e di dolore.
“La pioggia… sono nata nella pioggia. Sono cresciuta sotto la pioggia. Una pioggia fitta, sottile…una pioggia di lacrime. Una pioggia continua nell’anima e nel corpo.”
Frida rammenta il terribile incidente avvenuto nel 1925 dove, appena diciottenne, rimase gravemente ferita dallo scontro di un tram contro l’autobus su cui stava viaggiando. Il suo corpo rimase terribilmente martoriato e le conseguenze fisiche furono gravissime: subì numerose operazioni chirurgiche e fu costretta a trascorre anni di riposo a letto, dove iniziò a leggere e dipingere per superare la disperazione.
I genitori le regalarono dei colori e uno specchio da fissare sopra il baldacchino del letto, in modo tale da permetterle di dipingersi. La sua sensibilità artistica sembra essere strettamente connessa alla sofferenza che contraddistingue la sua vita.
“Io ho dipinto solo me stessa, perché si è soli nella sofferenza, perché la sofferenza genera solitudine.”
Crescendo, il dolore non le darà tregua: oltre ai patimenti fisici che tenterà di superare attraverso la morfina e l’alcol, anche la sua anima e la sua mente saranno segnate dalla sofferenza. Frida cerca disperatamente di avere dei figli, rimane incinta quattro volte ma dopo pochi mesi perde i bambini: il suo corpo deturpato rifiuta di portare avanti la gravidanza e rigetta quelle vite in divenire.
La morte sembra prendersi gioco di lei continuando ad aleggiarle intorno: l’aveva risparmiata quel tragico 17 settembre 1925, ma poi si impadronisce dei figli tanto desiderati.
“Per quattro volte ho concepito il figlio e la figlia che avrei voluto, ma la vita li ha assassinati quando stavano cominciando a smuoversi dentro di me. Ho irriso la Pelona, ho urlato in faccia alla Morte la mia ostinazione a vivere. Ma lei, vigliacca, si è presa quattro figli e mi ha lasciato in cambio la solitudine immensa, inibita, desolata e annichilente dei miei giorni di lacrime.”
Nonostante le pene sofferte, Frida si aggrappa prepotentemente a quella vita che tenta di ostacolarla in tutti i modi. Si innamora perdutamente del famoso artista Diego Rivera e lo sposa, si appassiona agli ideali comunisti, si dedica all’arte e si impegna con tutta se stessa per vivere davvero. Luci e ombre tratteggiano la sua intera esistenza: ha degli amanti, anche donne, pur rimanendo Diego il suo grande amore, attira le attenzioni di Trockij, è dedita all’alcol e usa la morfina per placare i suoi dolori.
“Diego è come la mia vita: un lento avvelenamento senza fine, tra gioie di sublime intensità e abissi di angosciosa disperazione.”
L’amore per Diego è anch’esso causa di eterne sofferenze: l’uomo, genio sregolato, è amante delle donne e tradisce ripetutamente la moglie, anche con la sorella Cristina, l’unica della quale Frida si fidasse davvero.
Personalmente ho apprezzato molto questo testo perché Cacucci riesce a raccontare un’esistenza tanto travagliata in pochissime pagine, senza finire nella banalità; dalle sue parole emerge la sofferenza, fisica e mentale, di una donna che continua a combattere, nonostante tutto. Frida è un esempio di resilienza, termine tanto abusato al giorno d’oggi ma che si addice perfettamente alla forza di questa donna eccezionale e che può essere riassunto in questa frase che Cacucci immagina per Frida: “Ma a che mi servono le gambe, se ho ali per volare…”